80 anni fa l’eccidio nazista dei 14 Carabinieri a Teverola

Il 13 settembre del 1943 i nazisti trucidavano a Teverola 14 Carabinieri e due civili per la strenua resistenza da loro adoperata contro il tentativo di occupazione tedesca.

80 anni fa quel brutale eccidio. Per la comunità di Teverola è un giorno di raccoglimento, memoria e devozione nei riguardi di chi ha pagato con la propria vita il prezzo della nostra libertà.

Stamane, alla cerimonia tenutasi nel cimitero comunale di Teverola, erano presenti il comandante interregionale dei carabinieri, Antonio De Vita, il generale in congedo Domenico Cagnazzo e una folta rappresentanza dell’Arma, insieme ad autorità civili e religiose, tra cui il commissario prefettizio Francesco Montemarano, il vescovo della Diocesi di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, il parroco don Evaristo Rutino e i ragazzi dell’istituto comprensivo “Ungaretti”, guidati dalla dirigente Adele Caputo.

In ricordo di questi eroi l‘alto Ufficiale ha deposto, sul monumento a loro dedicato, una corona di alloro dell’Arma dei Carabinieri. Presenti anche i familiari di alcuni militari caduti.

I carabinieri difesero la sede del ‘palazzo dei telefoni’ per impedire le comunicazioni delle truppe tedesche con i loro comandi.

LE VITTIME

Questi i nomi dei 14 carabinieri: Egidio Lombardi (36 anni, brigadiere), Emilio Ammaturo (41, appuntato), Ciro Alvino (32, carabiniere), Antonio Carbone (21, carabiniere), Domenico Franco (19, carabiniere), Martino Manzo (49, carabiniere), Giuseppe Covino (28, carabiniere), Michele Covino (31, carabiniere), Giuseppe Pagliuca (28, carabiniere), Giuseppe Rocca (23, carabiniere), Nicola Cusatis (30, carabiniere), Domenico Dubini (30, carabiniere), Giovanni Russo (29, carabiniere), Emiddio Scola (40, carabiniere). I due civili: Carmine Ciaramella, operaio, e Francesco Fusco.

Anche ad Avellino, le associazioni combattentistiche irpine hanno partecipato al rito di suffragio celebrato nella chiesa del Rosario del capoluogo irpino.

LA STORIA

Sin dalla sera dell’8 settembre la Stazione Carabinieri di Napoli Porto, in via Marchese Campodisola, intensificò, raddoppiandoli, i servizi di vigilanza al Palazzo dei Telefoni. Il monumentale edifico neo-barocco di via Depretis, opera degli anni ’20 dell’ingegnere Camillo Guerra, ospitava la centrale telefonica, obiettivo strategico per il controllo delle comunicazioni dell’intera area. Vi furono inviate a presidiarlo due pattuglie di carabinieri della Stazione oltre a trenta carabinieri della compagnia rinforzi e a un centinaio di soldati, al comando di un ufficiale del Regio Esercito. Fino al pomeriggio dell’11 settembre nessun incidente mentre il resto della città veniva messo a ferro e fuoco.

Verso le 14:00 un nucleo di soldati tedeschi, al comando di un capitano, tentò l’assalto di sorpresa con diversi autocarri e una camionetta. I militari italiani, posti a difesa sui balconi, sulle finestre e nei punti più coperti delle vie adiacenti, li accolsero con un nutrito fuoco di fucili, mitragliatrici e bombe a  mano. I tedeschi risposero con le armi automatiche, di cui erano largamente forniti.

La battaglia che ne scaturì, particolarmente violenta, si protrasse per un’ora circa. Gli uomini del Fürher, malgrado la superiorità del numero e dei mezzi, furono costretti a ritirarsi. Nel farlo, abbandonarono sul terreno tre morti, tra cui il capitano comandante, un autocarro e la camionetta, ormai fuori uso. Non ebbero nemmeno il tempo di raccogliere i loro caduti.

L’eroico presidio festeggiò la vittoria preparandosi, con morale altissimo, a contrastare eventuali ulteriori attacchi. Ma ormai l’intera difesa della città di Napoli era crollata. Lo stesso Generale Del Tetto si era allontanato. I collegamenti erano soppressi e i comandi superiori non davano più segni di vita. Il reparto di soldati e gli uomini della compagnia rinforzi vennero ritirati. Rimasero sul posto solo i quattro carabinieri della Stazione Porto.

A sera inoltrata, intuito che ormai ogni speranza di difesa sarebbe risultata vana e, sotto l’incalzare degli avvenimenti, anche le due pattuglie di carabinieri vennero fatte rientrare. I tedeschi poterono così occupare la struttura dopo poche ore.

Il mattino seguente all’ombra del Vesuvio giunsero i reparti della divisione corazzata “Herman Göring”.

Il Colonnello Scholl assunse il comando della città di Napoli. Un’aliquota dell’Unità si accampò nei pressi della Regia Università degli Studi Federico II, non molto lontano dalla caserma.

Nel primo pomeriggio gli abitanti del quartiere, sotto la pressione delle baionette e la minaccia delle armi da fuoco, vennero rastrellati e condotti nella piazza antistante l’Università. Lì, in ginocchio, assistettero all’ignobile spettacolo dell’incendio del sontuoso e glorioso Ateneo.

Verso le 15:00, un reparto costituito da una ventina di tedeschi, muniti di armi automatiche e bombe a mano, irruppero nei locali della Stazione Porto dove i carabinieri si erano asserragliati.

Erano presenti il Comandante, Brigadiere Egidio Lombardi, e i Carabinieri Giuseppe Covino, Emidio Scola, Martino Manzo, Nicola Cusatis, Domenico Dubini, Michele Covino, Antonio Carbone, Giuseppe Pagliuca, Giovanni Russo, Ciro Alvino, Domenico Franco e Giuseppe Ricca. Colti di sorpresa, furono costretti a seguire i tedeschi. Lo fecero in silenzio, dignitosamente. Scendendo le scale, si imbatterono nell’Appuntato Emilio Ammaturo che giungeva in quell’istante, proveniente dalla sua abitazione. In mano aveva una valigetta. Venne portato con gli altri, in mezzo alla folla.

Sullo scalone della Facoltà, sotto gli occhi pieni di terrore di uomini, donne e bambini, fu ucciso a colpi di mitraglia un marinaio, reo di aver lanciato delle bombe a mano contro un carro corazzato tedesco. Il suo cadavere fu gettato sul fuoco. Sotto la minaccia delle armi puntate, tutti furono costretti a battere le mani. Gli uomini, compresi i militari dell’Arma, divisi dalle donne e dai fanciulli, vennero caricati su alcuni automezzi.

Nella notte tra domenica 12 e lunedì 13 settembre, circa cinquecento uomini tra i 18 e i 50 anni, destinati al lavoro, vennero fatti affluire in un campo di concentramento improvvisato, in località “Madama Vincenza” del comune di Fertilia, l’odierna Teverola, poco lontano da Aversa, a circa 200 metri dallo stradale nazionale Napoli-Capua. Ai quattordici carabinieri furono consegnati dei fucili. Nessuno immaginò che fossero privi di caricatori. Sembrava che stessero scortando i prigionieri. Stavano andando incontro alla morte. I giovani carabinieri furono condotti in un accampamento tedesco a pochi chilometri da Madama Vincenza. Qui vennero tenuti in condizioni disumane. Mancava perfino l’acqua da bere. Con loro vennero tenuti in ostaggio anche due cittadini di Fertilia, Francesco Fusco e Carmine Ciaramella.

La  loro unica colpa era stata di essersi sfortunatamente imbattuti nei soldati del Reich. Il pomeriggio del 12, Francesco Fusco, un agricoltore cinquantaduenne che aveva prestato per undici anni servizio nella Regia Guardia di Finanza, si trovava nel piccolo campo con il quale sosteneva la famiglia: la moglie e cinque figli, due dei quali alle armi e prigionieri in Tunisia e altri tre in tenera età. L’orto si trovava a Casaluce di Fertilia, in una località nota con il nome di “Tiro a segno”, proprio nei pressi dell’attendamento germanico. Poiché i soldati, per procurarsi la legna, distruggevano le piante e rovinavano il raccolto dell’uva e dell’altra frutta, il contadino mostrò risentimento nei confronti di uno di essi. Questi allora lo prese, lo fece prigioniero e lo portò nell’accampamento.

Sorte analoga toccò a Carmine Ciaramella, un soldato del 10° Reggimento Genio della Caserma “28 ottobre” di Santa Maria Capua Vetere. Nonostante si trovasse in licenza agricola, si stava adoperando per mettere in salvo del materiale militare in un edificio scolastico di Casaluce adibito a caserma del 3° Gruppo dell’8° Reggimento Artiglieria “Pasubio”. Per impedire l’ingresso nella struttura di alcuni malintenzionati, il Ciaramella aveva fatto fuoco in aria col moschetto, a scopo intimidatorio. Transitava,
in quel momento, un autocarro con a bordo dei militari tedeschi. Questi, ritenendo che i colpi fossero loro
diretti, catturarono l’uomo, portandolo nell’accampamento di “Tiro a segno”.

Il Maresciallo Capo Mario Angrisani, effettivo alla Stazione di Teora, vicino Avellino, il 12 settembre era stato dimesso dall’Ospedale di Napoli con 60 giorni di limitato servizio. Non potendo raggiungere la sua sede, si presentò alla compagnia comando legionale dalla quale venne lasciato in libertà, per raggiungere, non appena possibile, la Stazione di Teora. Il sottufficiale rimase a Napoli appoggiato presso un fratello. Fu catturato dai tedeschi e portato a piedi a Fertilia. Qui avrebbe assistito al tragico evento che stava per compiersi.

Si era ormai fatto buio quando la signora Maria De Maio, moglie del Fusco, preoccupata per il mancato rientro dell’uomo, decise di recarsi in campagna per cercarlo. Lo trovò, ma in mezzo ai tedeschi. Da lontano il contadino le fece un cenno con la mano come per dire che non sapeva cosa stesse accadendo. La donna si fece coraggio. Si avvicinò alle sentinelle. Chiese che lo liberassero. Pianse. Supplicò. Nessuno le diede retta. Il mattino seguente si recò di nuovo sul posto. Scorse il marito. Non poteva parlare. Nell’acquartieramento vi erano anche molti animali: galline, maiali e conigli che i tedeschi avevano razziato nelle vicine fattorie. Maria implorò di liberare il marito ma le sue preghiere non furono accolte. Ritornò a casa sfiduciata. Le compaesane la confortarono dicendo che Francesco, come tanti altri uomini, era stato trattenuto solo per lavorare e che a sera lo avrebbero rilasciato. Invece il mattino seguente, alla donna venne riferito che il marito, insieme a un altro paesano e a quattordici carabinieri, era stato visto camminare a piedi verso il campo di concentramento. La sciagurata si precipitò lì. Sapeva che il pover’uomo era digiuno. Portò con sé del pane e una bottiglia di vino e la speranza di vederlo vivo e finalmente libero. Nel campo si trovò di fronte un gruppo di circa cinquecento uomini. Le fu detto che erano stati prelevati nel capoluogo campano. Voleva entrare ma le sentinelle tedesche avevano sistemato tutt’intorno le mitragliatrici e non facevano avvicinare nessuno. La donna pregò insistentemente; voleva vedere il marito. Fu accontentata. Il nome di Francesco fu chiamato ad alta voce. Nessuno rispose.

Intanto nel campo di concentramento alcuni ufficiali nazisti, fatti perquisire e identificati tutti i presenti, dopo aver confabulato tra loro, fecero una prima selezione.

Fecero mettere da un lato i quattordici carabinieri, il Ciaramella e il Fusco, e trattennero una ventina di civili, scelti fra i più giovani. Tutti gli altri furono messi in libertà.

Alle 15:00 circa i primi sedici vennero fatti spostare di un centinaio di metri, verso l’interno della campagna.

Vennero fatti inginocchiare uno accanto all’altro, di fronte a una mitragliatrice. A breve distanza vennero piazzate altre quattro armi automatiche per impedire qualsiasi tentativo di fuga. Si udì l’ordine di far fuoco.

Per due volte la mitraglia sferrò le sue raffiche sui corpi di quei disgraziati. Nell’aria risuonarono le urla della signora De Maio. Fuggì atterrita. E mentre fuggiva e piangeva udì altri colpi. Un tedesco aveva infierito sui corpi che ancora davano segni di vita.

Terminata l’esecuzione, i tedeschi ordinarono a uno dei venti civili rimasti nelle vicinanze di perquisire i cadaveri e agli altri di scavare una fossa per seppellirli. Vennero raccolti orologi, documenti e denaro che, posti in una valigetta, furono consegnati ai tedeschi. Era la valigetta che poco prima stringeva tra le mani l’Appuntato Ammaturo.

Mentre i giovani scavavano, un soldato tedesco trovò nelle tasche di uno dei carabinieri circa 1.200 lire che, a lavoro ultimato, furono ripartite tra coloro che avevano lavorato allo sterro. 80 lire ciascuno. I cadaveri furono calati nella fossa. Poiché l’esiguo spazio non consentiva di metterli uno accanto all’altro, dieci furono deposti in linea orizzontale e sei di traverso, sopra i primi. Furono ricoperti dal terreno. Poi dalla polvere sollevata dalle auto dei tedeschi che, compiuto l’eccidio, si allontanarono in tutta fretta.

Per qualche giorno si udirono i colpi dei cannoni, si videro gli aeroplani volare sulla terra insanguinata. Poi la guerra salì il Volturno e passò oltre e fu il silenzio anche su questo massacro. Fra la popolazione del rione Napoli Porto si costituì spontaneamente un comitato per tributare solenni onoranze ai militari dell’Arma.

Nel 1949 sul luogo della strage è stata eretta per iniziativa dell’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani
d’Italia), una lapide commemorativa. Nel 1986, nel comune di Teverola è stato realizzato un monumento in onore delle sedici vittime e, nel 2011, la piazza che lo ospita è stata intitolata “Piazza 13 settembre 1943. Quattordici Carabinieri martiri trucidati dai nazisti”.

A Latronico (PZ) una lapide ricorda il Brigadiere Egidio Lombardi, alla cui memoria è intitolata la Stazione Carabinieri di Laurenzana (PZ). Il comune di Roccabascerana (AV) ha dedicato una piazza al Carabiniere Giuseppe Covino. A Taviano (LE) una strada e un monumento sono dedicati al Carabiniere Martino Manzo, al quale è intitolata anche la Stazione di Racale (LE). Al Carabiniere Giuseppe Ricca è intitolata la Stazione di Guarda Mangano (CT). A San Martino Valle Caudina (AV) la Stazione è intitolata al Carabiniere
Michele Covino. Al Carabiniere Domenico Dubini è intitolata la Stazione di Asso (CO). Al Carabiniere Domenico Franco quella di Colle Sannita (BN).

A tutti è stata conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare “alla memoria” con la seguente motivazione: “In periodo di eccezionali eventi bellici seguiti all’armistizio, preposto con gli altri militari della sua stazione alla difesa di importante centrale telefonica, assolveva coraggiosamente il suo dovere opponendosi al tentativo di occupazione e di devastazione da parte delle truppe tedesche. Catturato per rappresaglia e condannato a morte con i suoi compagni, affrontava con ammirevole stoicismo il plotone di esecuzione. Nobile esempio di virtù militari”.

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